La Corte Costituzionale ha esaminato in data 27 aprile 2022 le questioni di legittimità costituzionale sulle norme che regolano l’attribuzione del cognome ai figli. In particolare, la Corte si è pronunciata sulla norma che non consente ai genitori, di comune accordo, di attribuire al figlio il solo cognome della madre e su quella che, in mancanza di accordo, impone il solo cognome del padre, anziché quello di entrambi i genitori.
In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio comunicazione e stampa della Corte Costituzionale fa sapere che le norme censurate sono state dichiarate illegittime per contrasto con gli articoli 2, 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.
La Corte ha ritenuto discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio la regola che attribuisce automaticamente il cognome del padre.
Nel solco del principio di eguaglianza e nell’interesse del figlio, entrambi i genitori devono poter condividere la scelta sul suo cognome, che costituisce elemento fondamentale dell’identità personale.
Pertanto, la regola diventa che il figlio assume il cognome di entrambi i genitori nell’ordine dai medesimi concordato, salvo che essi decidano, di comune accordo, di attribuire soltanto il cognome di uno dei due.
In mancanza di accordo sull’ordine di attribuzione del cognome di entrambi i genitori, resta salvo l’intervento del giudice in conformità con quanto dispone l’ordinamento giuridico.
La Corte ha, dunque, dichiarato l’illegittimità costituzionale di tutte le norme che prevedono l’automatica attribuzione del cognome del padre, con riferimento ai figli nati nel matrimonio, fuori dal matrimonio e ai figli adottivi.
E’ compito del legislatore regolare tutti gli aspetti connessi alla presente decisione.
La sentenza sarà depositata nelle prossime settimane.
Avv Claudia Bellotti
Costituisce uso illecito del marchio notorio altrui la diffusione non autorizzata da parte dell'influencer tramite il proprio profilo Instagram di video ed immagini raffiguranti il marchio notorio, pur a scopo diverso da quello di contraddistinguere prodotti o servizi, quando tali immagini assumano un significato pubblicitario e siano idonee a generare un indebito vantaggio all'utilizzatore o un pregiudizio a danno del titolare del marchio.
TRIBUNALE DI GENOVA, SEZ. SPEC. IMPRESA 4 FEBBRAIO 2020 N. 15949
Avv Claudia Bellotti
E' integrato il reato di stalking contattare ripetutamente, al termine di una breve relazione, tramite numerosi sms e messaggi WhatsApp la ex fidanzata e scrivere plurimi messaggi tramite Instagram facendo riferimento implicito alla relazione intercorsa e alla possibile divulgazione di informazioni personali, contattando anche l'attuale fidanzato della persona offesa riferendogli che aveva cose interessanti di cui parlare.
TRIBUNALE MILANO 31/10/2016 N. 2918
Avv Claudia Bellotti
Ai fini della concreta quantificazione del danno deve considerarsi l'ipotesi in cui la frase offensiva sia stata pubblicata su Instagram, ossia su un social network di larga diffusione. Si tratta di una ipotesi di diffamazione aggravata dall'uso di altro mezzo di pubblicità - anzichè con il mezzo di stampa - ai sensi dell'art. 595 comma 3 c.p., in quanto rientrante in una categoria più ampia, comprensiva di tutti quei sistemi di comunicazione e di diffusione che, grazie all'evoluzione tecnologica, rendono possibile la trasmissione di dati e notizie ad un consistente numero di persone.
TRIBUNALE DI MILANO SEZ. 1 21.08.2018 N. 8738
Avv Claudia Bellotti
Quello del mantenimento dei figli maggiorenni è un tema di pregnante attualità, che ha notevoli implicazioni sul piano pratico e che continua a tenere impegnate le Corti. Il dovere al mantenimento dei figli maggiorenni è sancito, in primis, dall’art. 30 della Costituzione e dagli artt. 147 e segg. Cod. Civ., che impongono ad ambedue i genitori l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole, tenendo conto delle inclinazioni e delle aspirazioni dei figli, in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale. In ordine al quantum rilevano inoltre i principi sanciti dalla Suprema Corte con sentenza n. 22255/2007, la quale ha statuito che l’assegno va adeguato, oltre che alla differenza di reddito dei due coniugi separati divorziati, anche al reddito percepito dai figli come corrispettivo dall’attività svolta, aumentando o diminuendo in base al grado
dei medesimi conseguito. La giurisprudenza ha più volte definito i limiti del concetto di indipendenza del figlio maggiorenne, statuendo che non qualsiasi impiego reddito fa venir meno l’obbligo del mantenimento. E’ pacifico che affinché venga meno l’obbligo del mantenimento lo status di indipendenza economica del figlio può considerarsi raggiunto in presenza di un impiego tale da consentirgli un reddito corrispondente alla sua capacità professionale ed una appropriata collocazione nel contesto economico-sociale di riferimento adeguata alle sue attitudini ed aspirazioni (v. Cass. n. 4765/2002; n. 21773/2008; n. 14123/2011; n. 1773/2012).
In merito, è orientamento uniforme quello per cui la coltivazione delle aspirazioni del figlio maggiorenne, che voglia intraprendere un percorso di studi per il raggiungimento di una migliore posizione e/o carriera, non fa venir meno il dovere al mantenimento da parte del genitore (Cass. n. 1779/2013).
Avv. Claudia Bellotti
Il diritto alla salute è un diritto costituzionalmente garantito ed è uno dei diritti primari di ogni individuo.
L’’assegnazione della casa coniugale va tenuta in considerazione per garantire al coniuge debole la conservazione del tenore di vita in costanza del matrimonio.
Sulla base di tali chiari principi ho chiesto ed ottenuto dal Tribunale di Como sentenza innovativa che, anche in assenza di figli minori , ha assegnato la casa coniugale alla moglie gravemente malata .
Cosi’ testualmente la Sentenza Tribunale Como prima sezione civile n. 927/2017 pubblicata il 12.06.2017 , giudice relatore Dott. Caruso :
“Quanto alla chiesta assegnazione della casa coniugale …posto che il diritto di proprieta’ , eventualmente anche sclusivo , che un coniuge abbia sulla casa coniugale , puo’ essere sacrificato e compresso da un provvedimento di assegnazione solo qualora tale provvedimento sia giustificato dall’affidamento di figli minori e/o non economicamente autosufficienti , poiché l’assegnazione della casa coniugale trova giustificazione nel superiore interesse di tutela alla conservazione dell’ambiente famigliare per i minori (art. 337 sexies c.c. ) , alcun provvedimento deve essere oggi assunto dal collegio con riguardo alla principale funzione di tutela dei figli minori : l’unica figlia della coppia è divenuta maggiorenne e ne è stata accertata l’autonomia economica …pertanto la regolamentazione dei diritti dei coniugi sull’immobile esula dalle statuizioni accessorie alla pronuncia di separazione o di divorzio nel senso che essi devono essere azionati con le domande appropriate e nelle sedi competenti , cosicché nel caso di comproprieta’ , come nel caso di specie , non verificandosi le condizioni per l’assegnazione (in uso ) della casa coniugale le relazioni tra i coniugi sono regolate dalle norme sulla proprieta’ e sulla comunione legale . Senonchè , solo laddove sussista un titolo in comproprieta’ ed in compresenza di una condizione di debolezza di uno dei coniugi , dteminata come nel caso di specie da un grave stato di salute è possibile disporre l’assegnazione della cas coniugale anche in assenza di figli minori quando tale sistemazione costituisca una tutela per il coniuge “.
Avv. Claudia Bellotti
Quello del mantenimento dei figli maggiorenni è un tema di pregnante attualità, che ha notevoli implicazioni sul piano pratico e che continua a tenere impegnate le Corti. Il dovere al mantenimento dei figli maggiorenni è sancito, in primis, dall’art. 30 della Costituzione e dagli artt. 147 e segg. Cod. Civ., che impongono ad ambedue i genitori l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole, tenendo conto delle inclinazioni e delle aspirazioni dei figli, in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale. In ordine al quantum rilevano inoltre i principi sanciti dalla Suprema Corte con sentenza n. 22255/2007, la quale ha statuito che l’assegno va adeguato, oltre che alla differenza di reddito dei due coniugi separati divorziati, anche al reddito percepito dai figli come corrispettivo dall’attività svolta, aumentando o diminuendo in base al grado
dei medesimi conseguito. La giurisprudenza ha più volte definito i limiti del concetto di indipendenza del figlio maggiorenne, statuendo che non qualsiasi impiego reddito fa venir meno l’obbligo del mantenimento. E’ pacifico che affinché venga meno l’obbligo del mantenimento lo status di indipendenza economica del figlio può considerarsi raggiunto in presenza di un impiego tale da consentirgli un reddito corrispondente alla sua capacità professionale ed una appropriata collocazione nel contesto economico-sociale di riferimento adeguata alle sue attitudini ed aspirazioni (v. Cass. n. 4765/2002; n. 21773/2008; n. 14123/2011; n. 1773/2012).
In merito, è orientamento uniforme quello per cui la coltivazione delle aspirazioni del figlio maggiorenne, che voglia intraprendere un percorso di studi per il raggiungimento di una migliore posizione e/o carriera, non fa venir meno il dovere al mantenimento da parte del genitore (Cass. n. 1779/2013). Il criterio del tenore di vita goduto durante il matrimonio nonché la durata del matrimonio devono ancora essere presi a riferimento nelle cause di divorzio per valutare il diritto del coniuge più debole a ricevere l’assegno divorzile.
Dopo l’effetto valanga prodotto dalla sentenza di divorzio dell’ex ministro dell’economia Vittorio Grilli, sentenza n. 11504/2017 emessa dalla prima Sez. Civile della Suprema Corte, con l’abbandono del consolidato orientamento di un importo commisurato al tenore di vita antecedente lo scioglimento, la questione era al vaglio delle Sezioni Unite, alle quali è stato chiesto un ripensamento all’insegna della moderazione e del bilanciamento, con una valutazione delle peculiarità di ogni caso concreto. Con sentenza n. 18287 del 12.07.2018 le Sezioni Unite della Cassazione hanno quindi stabilito che all’assegno di divorzio deve attribuirsi una funzione assistenziale, nonché compensativa e perequativa. Secondo i Giudici della suprema Corte, che con questa decisione hanno risolto un contrasto giurisprudenziale, per il riconoscimento dell’assegno si deve adottare un criterio composito che, alla luce della valutazione comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali, dia particolare rilievo al contributo fornito dall’ex coniuge richiedente alla formazione del patrimonio comune e personale, in relazione alla durata del matrimonio, alle potenzialità reddituali future e all’età dell’avente diritto. Il parametro così indicato si fonda sui principi costituzionali di pari dignità e di solidarietà che permeano l’unione matrimoniale anche dopo lo scioglimento del vincolo.
Recentemente vi sono state due ordinanze della Cassazione sull’assegno di divorzio : lo stesso va ridotto se la moglie non si attiva nel cercare un lavoro e se non ci sono impossibilita’ oggettive di procurarsi i mezzi necessari . La prima ordinanza di Cassazione n. 3661/2020 specifica che l’assegno di divorzio deve essere ridotto se la moglie, dopo la fine del matrimonio , non si attiva non si attiva nel cercare lavoro e tiene un atteggiamento passivo .
La seconda ordinanza di Cassazione n. 3662/2020 invece chiarisce che è necessario verificare l’impossibilita’ oggettiva del coniuge richiedente di procurarsi un autonomo mantenimento , giungendo alla riduzione dell’assegno senza impossibilita’ oggettiva di procurarsi tale mantenimento .
Avv. Claudia Bellotti
Trattandosi di un trust autodichiarato in cui il disponente risulta essere altresì soggetto beneficiario, ne è effettivamente stata riconosciuta dalla giurisprudenza la nullità. Posto che “tale atto appare diretto a sottrarre beni immobili di proprietà del disponente dalla imminente aggressione dei creditori, in quanto volto a far figurare all’esterno l’apparenza di un patrimonio segregato in danno dei creditori del disponente che, di fatto, continua a gestire i propri beni senza alcuna conseguenza patrimoniale per le obbligazioni precedentemente contratte. Detto trust deve quindi ritenersi radicalmente nullo in quanto in contrasto con gli artt. 13, 1 lett. E) A della convenzione dell’Aja del 1.07.1985, ratificata con l. 364/89, non potendosi riconoscere legittimità ne ingresso nell’ordinamento italiano a un trust direttamente se non dichiaratamente volto a ostacolare la protezione dei creditori del disponente in caso di sua insolvibilità” (cf. Trib. Milano, 3.5.2013, cit. anche dalla parte attrice e terza intervenuta).
Il trust si sostanzia nell’affidamento ad un terzo di determinati beni perché questo li amministri e gestisca quale “proprietario” nel senso di titolare dei diritti ceduti) per poi restituirli, alla fine del periodo di durata del trust ai beneficiari.
Quando il disponente mantiene il controllo del fondo, sia in fatto che in diritto oppure quando ne dispone come cosa propria si configura lo sham trust.
Ove la perdita del controllo dei beni da parte del disponente sia solo apparente il trust è nullo (sham trust) e non produce l’effetto segregativi che gli è proprio (Cass. n. 46137/2014).
Nella citata sentenza di Cass. n 46137/2014, si riporta la decisione in primo grado del Tribunale di PARMA di nullità dell’atto costitutivo del trust, considerato uno sham trust, come tale improduttivo dell’effetto segregativi connaturato all’istituto, alla luce della qualifica di trustee e di beneficiario in unica persona. La Cassazione ha confermato che è risultata la piena trasparenza della finalità elusiva della costituzione del trust, poiché tale operazione è stata posta in essere in maniera evidente come mero espediente per creare un diaframma tra patrimonio personale e proprietà costituita in trust, con evidente finalità elusiva delle ragioni creditorie di terzi.
Segnaliamo altresì la recente Sentenza n. 531/2019 del 2 aprile 2019, Tribunale di Reggio Emilia, Sezione Prima Civile, che così testualmente statuisce: “ Come affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 3735/2015), ripresa nella sentenza della Corte d’Appello di Bologna, Terza Sezione Civile, n. 562/2015 pronunziata il 18.09.2015 e depositata il 22.09.2015, “presupposto coessenziale alla stessa natura dell’istituto è che il detto disponente perda la disponibilità di quanto abbia conferito in trust….Tale condizione è ineludibile al punto che, ove risulti che la perdita di controllo dei beni da parte del disponente sia solo apparente, il trust è nullo (sham trust) e non produce l’effetto segregativi che gli è proprio” (Cass. pen. Sez. 5°, 30 marzo 2011 n. 13276; conforme, sez, 6°, 27 febbraio 2014 n. 21621)”.
Ne deriva che il trust nel quale il disponente non perda il controllo sui beni in esso conferiti e che dipende esclusivamente dall’effetto segregativi degli stessi, rileva l’assenza di una causa propria del negozio costitutivo del trust e l’impiego abusivo dello strumento negoziale rispetto alla funzione sua propria e, per il fatto di porsi quale strumento diretto a ledere l’interesse dei creditori alla conservazione della responsabilità patrimoniale del debitore, si contrappone alle norme inderogabili interne dell’ordinamento italiano, e si configura quale negozio, prima ancora che nullo, “non riconoscibile” ai sensi dell’art. 15 della convenzione dell’Aja.”.
Con Sentenza n. 84/2020 del 24.01.2020 la Corte d’Appello di Torino, in accoglimento dell’appello incidentale promosso dall’Avv. BELLOTTI quale difensore di …s.p.a , ha dichiarato la nullita’ di atto notarile costitutivo di trust , poiché gia’ al momento della costituzione del trust esso non era concretamente suscettibile di realizzare i sottostanti interessi dichiarati dalla disponente per cui ne va dichiarata la nullita’ per difetto della sua causa concreta.
Avv. Claudia Bellotti
Si tratta in particolare di danno cagionato da dissesti al manto stradale in custodia al Comune di competenza .
Con Sentenza n. 1117/2019 del 18.9.2019 Il Tribunale di Como , Giudice dott. Alessandro Petronzi , ha accolto le difese dell’Avv. BELLOTTI , quale difensore del Comune di …………. respingendo le richieste dell’attrice , di risarcimento danni per essere caduta a terra mentre attraversava a piedi un incrocio stradale in corrispondenza di un avvallamento del manto stradale , dal cui centro emergeva un tombino .
È noto che la responsabilità ex art. 2051 c.c , secondo la giurisprudenza di legittimità, ha natura di responsabilità oggettiva (ex pluribus, Cass. 4279/2008; Cass. 25243/2006; Cass. 376/2005; Cass. 21684/2005), o comunque di colpa presunta (ex pluribus, Cass. 3651/2006; Cass. 6767/2001; Cass. 8997/1999), in quanto prescinde dall’accertamento dell’elemento soggettivo, salva la prova liberatoria del caso fortuito che deve essere fornita dal custode.
E’ altrettanto noto, oltre che pacifico in giurisprudenza, che, per caso fortuito, deve intendersi non solo l’accadimento assolutamente eccezionale, imprevisto ed imprevedibile, ma anche la stessa condotta del danneggiato (ex pluribus, Cass. 5326/2005; Cass. 11264/95; Cass. 1947/94), la quale, incidendo sul nesso di causalità, elidendolo, vale ad escludere la responsabilità ex art. 2051 c.c.
La diligenza del comportamento dell’utente deve essere peraltro valutata alla stregua delle specifiche condizioni di luogo e di tempo in cui è avvenuto l’evento dannoso e alla natura delle cosa e delle modalità che in concreto e normalmente ne caratterizzano la fruizione (Cass. 4476/2011).
La funzione della norma è infatti quella di far ricadere sul custode i danni causati dalla cosa, allorché tali danni scaturiscono da una concreta mala gestio del custode, con la conseguenza che una responsabilità ex art. 2051 c.c. non può essere invocata allorché la cosa rappresenti la mera occasione del danno.
Recente giurisprudenza di legittimità (ex pluribus, Cass. 2660/2013; Cass. 6306/2013; Cass. 25214/2014) ha inoltre precisato, in tema di corretto riparto dell’onere della prova, che, nei casi in cui il danno non sia l’effetto di un dinamismo interno alla cosa, scatenato dalla sua struttura o dal suo funzionamento, ma richieda che l’agire umano, ed in particolare quello del danneggiato, si unisca al modo di essere della cosa, essendo essa di per sé statica ed inerte, per la prova del nesso causale occorre dimostrare che lo stato dei luoghi presenti una obiettiva situazione di pericolosità, tale da rendere molto probabile, se non inevitabile, il danno stesso.
Inoltre, la giurisprudenza di legittimità formatasi in materia di danno cagionato da dissesti al manto stradale in custodia al Comune di competenza, ha indicato con chiarezza come l’onere del danneggiato sia “dimostrare che l’evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa, mentre resta a carico del custode offrire la prova contraria alla presunzione iuris tantum della sua responsabilità, mediante la dimostrazione positiva del caso fortuito, cioè del fatto estraneo alla sua sfera di custodia, avente impulso causale autonomo e carattere di imprevedibilità e di assoluta eccezionalità”. In altri termini, “l’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito si presume responsabile, ai sensi dell’art. 2051 c.c., dei sinistri riconducibili alle situazioni di pericolo connesse in modo immanente alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, indipendentemente dalla sua estensione, salvo che dia la prova che l’evento dannoso era imprevedibile e non tempestivamente evitabile” (ex pluribus: Cass. 15761/2016; Cass. 23919/2013).
L’art. 190, comma II , C.d.S sancisce che :” I pedoni , per attraversare la carreggiata , devono servirsi degli attraversamenti pedonali , dei sottopassaggi e dei sovrapassaggi . Quando questi non esistono . o distano piu’ di cento metri dal punto di attraversamento , i pedoni possono attraversare la carreggiata solo in senso perpendicolare , con l’attenzione necessaria ad evitare situazioni di pericolo per sé o per gli altri “.
È invece pacifico che parte attrice abbia posto in essere l’attraversamento senza utilizzare strisce pedonali . Indipendentemente dal fatto che esse fossero collocate a piu’ di cento metri dal punto di attraversamento , questione oggetto di diatriba tra le parti , resta che l’attrice ha violato un dettame del Codice della Strada , poiché ha posto in essere un attraversamento in un ‘area indiscutibilmente non destinata al transito a piedi di persone, qual è l’intersezione stradale (incrocio) peraltro in diagonale .
La violazione del precetto di non attraversare la strada in un incrocio adibito alla percorrenza dei veicoli , evidenzia la totale assenza di diligenza nella condotta del danneggiato , idonea ad elidere il nesso di causalita’ ex art. 2051 c.c. Infatti se parte attrice avesse adottato una condotta diligente non avrebbe posto in essere l’attraversamento in quel punto e non sarebbe incorsa nell’avvallamento del manto stradale che ha determinato la sua caduta . La carenza di diligenza risulta vieppiu’ avvalorata alla luce della situazione ambientale e climatica in cui il sinistro è avvenuto . Risulta infatti che l’evento per cui è causa fu scaturito dalla presenza sul manto stradale di acqua piovana e che al momento del sinistro erano in atto precipitazioni . In tali condizioni di tempo e fattuali era preciso onere dell’attrice quello di adottare ogni possibile cautela nell’attraversamento pedonale , in attuazione del generale principio di auto-responsabilita’ , che costituisce esplicazione del principio di solidarieta’ ex art. 2 Cost., divenendo cosi’ irrilevante l’accertamento in ordine all’effettivo dissesto della strada e la presenza della buca , in quanto la prova della condotta imprudente del danneggiato , inn presenza di cosa potenzialmente pericolosa , configura il caso fortuito idoneo ad interrompere il nesso di causalita’ tra la cosa e l’evento dannoso ( arg. Ex Cass. 17443/2019) .
Avv. Claudia Bellotti
CANI E ALTRI ANIMALI DOMESTICI : A CHI SPETTANO IN CASO DI SEPARAZIONE TRA CONIUGI ?
Chi ha diritto di tenere il cane o altro animale domestico in caso di separazione tra coniugi ? Non esiste una disciplina specifica che regoli la questione . La giurisprudenza si è quindi orientata nell’applicare in via analogica la normativa per i figli per quanto riguarda l’affidamento , il mantenimento ed il diritto di visita . Se la separazione è consensuale , le parti stabiliranno di comune accordo chi terra’ il cane o altro animale domestico e tutto cio’ che ne consegue . Se la separazione è giudiziale , molti Tribunali ritengono che non vi possa essere alcuna pronuncia in merito , ma vista la grande casistica , alcuni Tribunali si sono pronunciati stabilendo che in mancanza di accordi condivisi e sul presupposto che il sentimento per gli animali costituisce un valore meritevole di tutela , anche in relazione al benessere dell’animale stesso , l’assegnazione avvenga a favore della parte che appare assicurare il miglior sviluppo possibile dell’identita’ dell’animale , indipendentemente dall’eventuale intestazione risultante da microchip . Quindi dalla giurisprudenza emerge un orientamento volto a tenere in considerazione il valore della relazione che si instaura con l’animale familiare e l’interesse di quest’ultimo a non soffrire .
Avv. Claudia Bellotti
ASSEGNO DIVORZILE IN FAVORE DELL’EX CONIUGE – FAMIGLIA DI FATTO INSTAURATA DAL BENEFICIARIO – CONSEGUENZE – CORTE DI CASSAZIONE SEZ. UNITE SENT. N. 32198 DEL 05/11/2021
Le Sezioni Unite, pronunciando su questioni di massima di particolare importanza, hanno affermato i seguenti principi di diritto: l’instaurazione da parte dell’ex coniuge di una stabile convivenza di fatto, giudizialmente accertata, incide sul diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio o alla sua revisione, nonché sulla quantificazione del suo ammontare, in virtù del progetto di vita intrapreso con un terzo e dei reciproci doveri di assistenza morale e materiale che ne derivano, ma non determina, necessariamente, la perdita automatica ed integrale del diritto all’assegno. Qualora sia giudizialmente accertata l’instaurazione di una stabile convivenza di fatto tra un terzo e l’ex coniuge economicamente più debole, questi, se privo anche all’attualità di mezzi adeguati o impossibilitato a procurarseli per motivi oggettivi, mantiene il diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio a carico dell’ex coniuge in funzione esclusivamente compensativa. A tal fine il richiedente dovrà fornire la prova del contributo offerto alla comunione familiare; della eventuale rinuncia concordata ad occasioni lavorative e di crescita professionale in costanza di matrimonio; dell’apporto alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell’ex coniuge. Tale assegno, anche temporaneo su accordo delle parti, non è ancorato al tenore di vita endomatrimoniiale né alla condizione di vita dell’ex coniuge, ma deve essere quantificato alla luce dei principi su esposti, tenuto conto altresì della durata del matrimonio.
Avv. Claudia Bellotti
Azione revocatoria ordinaria.
Il Tribunale di Monza con sentenza n. 2134/2022 pubblicata il 25/10/2022 ha accolto la domanda di revocatoria , dichiarando l’inefficacia nei confronti dell’attore – creditore della convenuta – di atto di vendita stipulato nel marzo 2020 tra la debitrice convenuta e il di lei figlio mediante atto notarile stipulato in pieno lockdown da Covid.
Sull’eventus damni, presupposto dell’azione in questione.
Con detto atto notarile la convenuta debitrice ha venduto al figlio la piena proprietà dell’unico immobile su cui poteva vantare un diritto reale. Secondo l’orientamento interpretativo della Corte di Cassazione (cfr.: Cass, Sez. 2, sentenza n. 1902 del 03.02.2015), “ in tema di revocatoria ordinaria, non essendo richiesta, a fondamento dell’azione , la totale compromissione della consistenza del patrimonio del debitore, ma soltanto il compimento di un atto che renda più incerta o difficile la soddisfazione del credito (quale, nella specie, una transazione traslativa di beni ereditari conclusa dall’erede con un terzo) , l’onere di provare l’insussistenza di tale rischio , in ragione di ampie residualità patrimoniali, incombe sul convenuto che eccepisca, per questo motivo, la mancanza dell’ “eventus damni”. “
Il credito deve comunque essere anteriore rispetto all’atto di disposizione.
In punto di diritto, come sostenuto in varie occasioni dalla Suprema Corte (cfr.: Cass., Sez. 6 – 3 , ordinanza n. 4212 del 19.02.2020 ), “in tema di azione revocatoria , rileva una nozione lata di credito, comprensiva della ragione o aspettativa, con la conseguenza che anche il credito eventuale, in veste di credito litigioso , è idoneo a determinare l’insorgere della qualità di creditore abilitato all’esperimento dell’azione revocatoria ordinaria avverso l’atto dispositivo compiuto dal debitore , a nulla rilevando che sia di fonte contrattuale o derivi da fatto illecito e senza che vi sia necessità della preventiva introduzione di un giudizio di accertamento del medesimo credito o della certezza del fondamento dei relativi fatti costitutivi, in coerenza con la funzione di tale azione, che non persegue fini restitutori”.
L’ atto di disposizione deve avere carattere oneroso.
La compravendita è a titolo oneroso.
Sulla consapevolezza o meno del pregiudizio in capo alla creditrice e al terzo acquirente.
Secondo l’orientamento della Suprema Corte (cfr.: Cass., Sez.1, sentenza n. 16825 del 05.07.2013) , “ ai fini dell’azione revocatoria ordinaria, è sufficiente la consapevolezza, del debitore alienante e del terzo acquirente, della diminuzione della garanzia generica per la riduzione della consistenza patrimoniale del primo, non essendo necessaria la collusione tra gli stessi .” Quanto agli elementi presuntivi da cui è possibile desumere la sussistenza della conoscenza del pregiudizio per il creditore in capo al terzo,l uno di questi è senz’altro il rapporto di parentela tra le parti dell’atto pregiudizievole. Nel caso di specie poi l’atto traslativo, tra madre e figlio, con lei convivente, è stato stipulato nel periodo di chiusura di tutte le attività (c.d. lockdown) in essere nella primissima fase della pandemia da Covid 19 , senza che le parti di tale atto abbiano giustificato in alcun modo l’urgenza di procedere alla vendita .
Con provvedimento di accoglimento totale IL TRIBUNALE DI MONZA ha autorizzato il sequestro conservativo di beni di una ex con cui il ricorrente aveva intrattenuto una breve relazione amorosa, a fronte della concessione di un prestito per saldare debiti bancari e per ristrutturare un immobile di proprietà della stessa resistente, per una somma ingente, prestito che la resistente negava, asserendo che le somme ricevute rivestivano il carattere di mere regalie. L’adito Tribunale ha statuito che, quanto al fumus bomi iuris, ai fini dell’accoglimento del sequestro conservativo occorre effettuare un accertamento sommario da parte del Giudice circa la sussistenza del diritto di credito del quale è domandata la cautela. Nel caso di specie il credito del ricorrente si fonda su di un contratto di mutuo. La resistente non ha contestato di avere ricevuto tutte le somme indicate dal ricorrente, ma ha negato di averle ricevute a titolo di mutuo. E’ noto che secondo la Giurisprudenza costante della Cassazione “La “datio” di una somma di danaro non vale – di per sé- a fondare la richiesta di restituzione, allorquando, ammessane la ricezione, l’“accipiens” non confermi il titolo posto “ex adverso” alla base della pretesa di restituzione ed, anzi, ne contesti la legittimità, posto che, potendo una somma di danaro essere consegnata per varie cause, la contestazione, ad opera dell’“accipiens”, della sussistenza di un’obbligazione restitutoria impone all’attore in restituzione di dimostrare per intero il fatto costitutivo della sua pretesa, onere questo che si estende alla prova di un titolo giuridico implicante l’obbligo della restituzione, mentre la deduzione di un diverso titolo, ad opera del convenuto, non configurandosi come eccezione in senso sostanziale, non vale ad invertire l’onere della prova. Ne consegue che l’attore che chieda la restituzione di somme date a mutuo è tenuto a provare gli elementi costitutivi della domanda e, pertanto, non solo l’avvenuta consegna della somma ma anche il titolo da cui derivi l’obbligo della vantata restituzione (Cass. n. 9541 del 2010). Nella causa di merito successivamente instaurata il ricorrente ha sottolineato che la dazione della ingente somma è documentalmente provata e confermata dalla stessa controparte: se tale somma non è stata ricevuta a titolo di prestito e siccome non può trattarsi di donazione – si ricorda che le donazioni, trattandosi di somme ingenti sono sottoposte alla forma ad substantiam dell’atto pubblico ex art. 782.cc, allora resta che la resistente ha ricevuto questa ingente somma senza titolo alcuno, quindi è tenuta a restituirla per ripetizione d’indebito e/o arricchimento senza causa.
In Giurisprudenza “la parte che chieda la restituzione di somme date a mutuo è tenuta a provare, oltre alla consegna, anche il titolo dal quale derivi l’obbligo di controparte alla restituzione, purchè l’attore fondi la domanda su un particolare contratto, senza formulare nemmeno in subordine una domanda di accertamento del carattere ingiustificato del pagamento, o di ripetizione di indebito o di arricchimento senza causa, sì da porre in questione il diritto della controparte di trattenere la somma ricevuta … quando la parte deduca in giudizio e dimostri l’avvenuto pagamento di una somma … il convenuto è tenuto quanto meno ad allegare il titolo in forza del quale si ritiene a sua volta legittimato a trattenere la somma ricevuta. In mancanza di ogni allegazione in tal senso, il rigetto per mancanza di prova della domanda va argomentato con cautela, tenendo conto della natura del rapporto e delle circostanze del caso concreto, idonee a giustificare che una parte trattenga senza causa il denaro indiscutibilmente ricevuto dall’altra” (Cass. Civ. Sez.III 28 luglio 2014 n. 17050).